15 Mag L’omeopatia? La prova chimica
Non più memoria dell’acqua,
ma normali interazioni chimiche tali e quali a quelle che avvengono nel nostro organismo con i farmaci comuni prescritti dalla medicina ortodossa per promuovere la nostra guarigione. È questo il meccanismo dei farmaci omeopatici.
A provarlo due esperti internazionali: Jayesh Bellare professore di ingegneria chimica dell’Indian Institute of Technology di Bombay, che ha dimostrato con i suoi studi l’efficacia delle diluizioni omeopatiche, ed Edward Calabrese tossicologo dell’University of Massachusetts ad Amherst, massimo esperto mondiale di ormesi, fenomeno da lui ritenuto alla base del meccanismo d’azione dei medicinali omeopatici. Accademici di fama internazionale che hanno messo sul tappeto i risultati raggiunti presentandoli nell’ambito del Seminario internazionale “Advances in Homeopathy: a new scientific and social perspective” organizzato a Firenze lo scorso mese di marzo in occasione dell’VIII Convegno triennale della Società Italiana di Omeopatia e Medicina Integrata (Siomi).
“Finalmente è arrivata la svolta – ha dichiarato Simonetta Bernardini Presidente Siomi – quello che non si è saputo spiegare per tutti questi anni e che ha esposto l’omeopatia a una condanna della scienza, che l’ha classificata come un sistema di cura non plausibile poiché priva di molecole, oggi è stato sfatato. Gli studi di Jayesh Bellare hanno dimostrato in maniera incontrovertibile, attraverso il microscopio elettronico a trasmissione, la presenza di un rilevante numero di molecole di principio attivo in tutte le diluizioni omeopatiche dalla 6C alla 200C. Tali molecole – ha aggiunto – che si mantengono in numero pressoché costante in tutte le successive diluizioni, vengono stabilizzate dai metasilicati provenienti dal vetro utilizzato per preparare le diluzioni stesse. Questi aggregati costituiscono una riserva chimica di molecole, le quali poi possono interagire con i substrati biologici e dare effetto all’attività del medicinale omeopatico. Certo – conclude – sono piccole dosi (nanomoli), ma sufficienti a dare una risposta terapeutica secondo i principi della farmacologia delle microdosi, una parte della farmacologia ortodossa sempre più in sviluppo negli ultimi anni”.
Insomma, l’omeopatia è una questione puramente chimica. Ma cosa si trova quindi all’interno di un medicinale omeopatico? “Abbiamo cercato di dare una risposta a questa domanda per molto tempo; credo che l’abbiamo trovata – ha spiegato il professor Bellare – ed è sorretta da una forte evidenza grazie alla microscopia elettronica. La risposta è che ciò che si trova è esattamente la sostanza di partenza utilizzata per preparare il medicinale e presente quindi nel prodotto finale. Abbiamo infatti scoperto che, anche in presenza di un elevato grado di diluzione, nel campione di medicinale omeopatico analizzato, permangono molte particelle della sostanza originale. E queste particelle sono presenti in quantità misurabili. Perciò, se un tempo è stato attribuito all’acqua un ruolo, sulla base di teorie che erano davvero inverosimili, oggi – prosegue – possiamo dire che in effetti nel medicinale omeopatico è presente una sostanza, che è esattamente quella di partenza utilizzata nella preparazione del medicinale. Parliamo di nano-particelle presenti in concentrazioni misurabili che possiamo vedere nelle fotografie che abbiamo realizzato e analizzato”.
I risultati osservati nello studio sono spiegabili con il meccanismo dell’ormesi (stimolazione a basse dosi e i cui principi furono annunciati già nel 2006 dal Prof. Andrea Dei dell’Università di Firenze), ha chiarito il professor Edward Calabrese. In pratica si tratta di un rovesciamento di azione tra una dose (grande) tossica e una dose (piccola) che ha invece un effetto terapeutico. Come l’omeopatia, la quale si basa sulla somministrazione di dosi infinitesimali di sostanze, che ad alte dosi hanno proprio un’azione tossica sull’organismo (principio della similitudine omeopatica).
“L’idea dell’ormesi riguarda la relazione dose-risposta – ha detto il professor Calabrese – un aspetto sul quale ho lavorato molto negli ultimi 25-30 anni e che mi ha fatto arrivare al convincimento che la comunità scientifica e la comunità medica abbiano sbagliato le loro conclusioni: hanno agito sulla convinzione che la relazione dose-risposta abbia una soglia (il che significa che è necessario superare una certa dose di sostanza prima di poter effettivamente osservare che qualcosa accada), oppure che ci sia una risposta proporzionale alla dose (ossia che la risposta è direttamente proporzionale alla dose e quindi anche la più piccola esposizione a una sostanza può causare una sorta di cambiamento). Credo che l’errore sia stato quello di interpretare le relazioni dose-risposta nelle basse dosi, perché esse mostrano in realtà una risposta ormetica alla dose. Il che significa che le basse dosi stimolano una risposta, e quando la dose aumenta, la risposta diventa inibitoria. In sostanza, se testassi solo dosi elevate e poi cercassi di prevedere cosa sarebbe successo a basse dosi, otterrei sempre la risposta sbagliata”.
Ecco perché, ha concluso “auspico che si guardi con attenzione ai risultati ai risultati che abbiamo raggiunto con i nostri, in modo che si possa forse cambiare strategia per adattarsi o permettere che la risposta alla dose ormetica venga tenuta in considerazione. Credo infatti che l’ormesi possa essere utile alla medicina ambientale o la medicina tradizionale e quindi anche all’omeopatia”.